La cosca Lo Giudice di Reggio Calabria e i suoi collegamenti istituzionali
La Cosca Lo Giudice di Reggio Calabria e i suoi collegamenti istituzionali in un'analisi di Claudio Cordova, Direttore de Il Dispaccio.
La sentenza sulla cosca Lo Giudice di Reggio Calabria e sui suoi collegamenti istituzionali, oltre a segnalare una serie di condotte criminose, punite duramente dal Tribunale, pone diversi problemi sul modo in cui, negli scorsi anni, è stata amministrata la giustizia in città. Questioni serie, che vanno a toccare le garanzie per i cittadini, quelle sacramente sancite dalla Costituzione. E se la classe politica, intellettuale e giornalistica reggina non fosse, a vario titolo, incompetente o prezzolata, il dibattito su garantismo sì-garantismo no, sarebbe già fuoriuscito dalla stucchevole querelle tra giustizialisti e innocentisti, dalle oscene masturbazioni mentali sulla custodia cautelare, dalla patetica presunzione di innocenza (che non esiste, visto che il Codice parla di presunzione di non colpevolezza, cosa ben diversa). Si sarebbe approdati al dibattito, di livello assai più alto, sui metodi che uno Stato di diritto debba e possa utilizzare per raggiungere i propri scopi, ossia far rispettare le leggi nazionali e punirne i trasgressori.
Poche, pochissime le persone oneste sotto il profilo intellettuale che oggi, alla fine del 2014, possano rimpiangere sinceramente quello che il pm di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi, ha spesso definito il “prima” dell’approccio giudiziario negli anni antecedenti alla gestione di Giuseppe Pignatone. E questo non per i risultati ottenuti in termini di arresti, di sequestri di beni, di aggressione alla “zona grigia”, ecc.: su questo vi sono fatti, provvedimenti e sentenze su cui ciascuno può farsi la propria opinione.
Ciò che segna il confine, netto, è il metodo.
Ciò che il Tribunale presieduto da Silvia Capone ha messo nero su bianco nel processo sul clan Lo Giudice – e nessuno potrà mai più ignorarlo – è un chiaro, chiarissimo, spartiacque su come, fino a meno di dieci anni fa, veniva intesa l’attività investigativa e giudiziaria e su cosa è nato con Giuseppe Pignatone e che sta proseguendo con il suo successore, Federico Cafiero de Raho. Le 1500 pagine di sentenza del presidente Capone, oltre a sancire, ancora una volta, l’esistenza del clan Lo Giudice (dato evidente, ma fino ai giorni nostri contestato, con ignoranza e malafede) cristallizza in maniera nitida la differenza tra il “prima” e il “dopo”.
Mettendo in fila storie e circostanze ormai ampiamente note, ma che, racchiuse tutte in un unico elaborato giudiziario, si manifestano poderosamente in tutta la loro gravità.
Sì, con la sentenza del Tribunale nel processo Lo Giudice vengono a cadere tutte le insinuazioni, le ipotesi di complotto campo privilegiato della mediocrità umana: si crede all’esistenza di un grande manovratore, di qualcuno che faccia carte false per fregare qualcun altro, di qualche oscura (ma indefinita) presenza che condizioni ogni cosa, solo per giustificare le nostre debolezze, per assecondare la nostra incapacità di cambiare le cose, o, almeno, di tentare di farlo.
E così ci ritroviamo giudici che parlano al telefono con figli di capimafia, elemento più grave e visibile di un rapporto poco ortodosso stabilito tra le due parti. Un rapporto nato e portato avanti – è stata la difesa dei togati – per la cattura di un pericolosissimo latitante come Pasquale Condello, il “Supremo” della ‘ndrangheta. E così capita che il viceprocuratore nazionale antimafia, Alberto Cisterna, incontri casualmente un alto ufficiale dei Servizi Segreti e gli segnali la fonte confidenziale che li avrebbe potuti portare a Condello. Ma davvero è così che si catturano i latitanti? L’ausilio di fonti confidenziali è stabilito e previsto dal Codice (per le forze dell’ordine, non per i magistrati), ma le attività messe in atto per un’operazione così delicata e importante dovrebbero essere messe in piedi tramite la concertazione interna agli uffici giudiziari e agli inquirenti, non di certo al rapporto fiduciario tra singole persone che decidono tempi e modi con cui incontrarsi, oggi a Fiumicino, domani chissà dove. Ma la sentenza ci racconta anche di una perquisizione in via Manfroce in cui, decine di Carabinieri circonderanno uno stabile con la falsa motivazione di essere a caccia di un extracomunitario, ma essendo invece alla ricerca di Pasquale Condello. Un’azione imponente che, se non fosse stato per i ricordi di Nino Lo Giudice, sarebbe rimasta ancora oggi ignota. Nessuno, infatti, metterà nero su bianco quell’attività: “Inquietanti poi le modalità di svolgimento della perquisizione d’iniziativa: nessun atto notificato alla parte, nessuna garanzia difensiva assicurata alla parte – cui peraltro veniva fornita una notizia pretestuosa in ordine alle effettive ragioni dell’accesso —, nessuna comunicazione alla Procura della Repubblica” si legge nella sentenza.
Eccolo il garantismo, quello vero. Non quello peloso che ci viene propinato ogni giorno da politicanti che si spacciano per uomini delle Istituzioni e pennivendoli che si spacciano per giornalisti. Sono queste le garanzie su cui ci si deve confrontare e per le quali si deve combattere. Perchè è dove non vi è alcun controllo che nascono le possibili degenerazioni, è quando esponenti dello Stato, in virtù del proprio ruolo, pensano che tutto gli sia consentito che si innescano pericolosi meccanismi.
Il tema è quello su cui da centinaia di anni ci si arrovella: il fine giustifica i mezzi? Può dunque uno Stato di diritto (magistrati e carabinieri ne sono la diretta espressione) usare metodi discutibili, oscuri e, quindi, poco sicuri per la cittadinanza, per raggiungere il proprio scopo, seppur importante e degno, come quello della cattura di un boss di ‘ndrangheta come Pasquale Condello? La sentenza del Tribunale di Reggio Calabria sulla cosca Lo Giudice ci dice che questo è stato fatto negli anni e che ora, però, in tanti non vogliono prendersi le responsabilità delle proprie condotte.
Eccolo il merito di Pignatone: essere riuscito a spezzare determinate logiche che, in nome di un fine ultimo (magari giusto, in astratto) conferivano troppo potere in capo a pochi, spogliando invece le Istituzioni – in senso ampio e non individuale – del proprio ruolo: raggiungere gli obiettivi previsti dalla Legge, ma, parimenti, essere baluardi insormontabili della garanzia delle singole persone e della trasparenza delle condotte messe in campo. Un metodo che sta continuando a perseguire un magistrato integerrimo come Federico Cafiero de Raho che già a poche settimane dal proprio insediamento sceglierà da che parte stare, affiancando in aula il pm Ronchi nel delicato interrogatorio ai magistrati Cisterna e Mollace.
Ecco l’eredità che ci lascia la sentenza del presidente Capone e il percorso tracciato da Pignatone e Cafiero de Raho: il rispetto delle regole d’ingaggio nella lotta tra Stato e criminalità. Se c’è qualcuno che le potrà violare, quello non deve essere assolutamente lo Stato.