“Bambini a metà”
I figli di famiglie 'ndranghetiste sembrano essere costretti ad un futuro nella criminalità organizzata. Ma cosa succede se lo Stato sceglie di far conoscere a questi ragazzi un mondo diverso? Questa é la domanda alla quale la giornalista Angela Iantosca cerca di rispondere nel suo libro "Bambini a metà", edito da Giulio Perrone.
Spesso si osserva il fenomeno: Padre dentista, figlio dentista. Si può dire la stessa cosa anche per i figli di ‘ndranghetisti?
Ovviamente ogni persona dispone di libero arbitrio. Il problema della ‘ndrangheta, più che di altre mafie, è che questa libertà è ridotta ai minimi termini, essendoci una sovrapposizione tra struttura criminale e struttura familiare.
L´educazione alla mafia in Calabria inizia spesso già nella culla.
Antonio Zagari, un collaboratore di giustizia morto misteriosamente in un incidente stradale, racconta nel suo libro “Ammazzare stanca” di come suo padre, un boss, abbia messo nella sua culla di neonato una chiave e un coltello. La chiave è il simbolo della sbirraglia, il coltello è il simbolo del boss. In base a quale oggetto sceglierà il bambino si capirà a cosa é destinato. In realtà il padre boss avvicina il coltello al bambino in modo da condizionare la sua scelta. Così è accaduto a Zagari e così accade a tanti bambini. Come a voler sancire sin dalla culla che questo bambino da grande sarà un boss. Il punto fondamentale è la normalità di questa educazione mafiosa. Come il figlio del dentista è abituato a vedere ogni giorno gli strumenti del padre, così il figlio di un ‘ndranghetista è abituato a vedere le armi, la droga, a sentire pronunciare determinate parole, ad andare a trovare i parenti nei bunker o in carcere.
Ha definito questi bambini “bambini a metà”, perché?
Perché sono dei bambini che non sono liberi di vivere la loro infanzia.
L´idea mi è venuta a Scampia. Ero alle Vele con Davide Cerullo, un ex ragazzo di strada che ha abbandonato la Camorra dopo aver trovato la religione. Eravamo tra i ballatoi e abbiamo sentito urlare “Maria Maria Maria”. I bambini che stavano giocando tra le vele si sono ricomposti subito, come se stessero facendo qualcosa di sbagliato. Alla mia faccia perplessa Davide mi ha spiegato che l‘urlo “Maria, Maria, Maria” stava a significare che la polizia era in arrivo. E quei bambini lo sapevano. Questa non è un‘ infanzia rubata? Bambini di cinque, sei anni che capiscono il linguaggio della criminalità organizzata. Per questo l‘immagine di “bambini a metà”.
Cosa contraddistingue i figli di ‘ndranghetisti?
La ‘ndrangheta è un‘associazione mafiosa particolare che sovrappone l’associazione criminale all’organizzazione familiare, nella quale ogni famiglia è a sè.
In generale si può dire che i bambini vengono educati al rispetto, all‘onore. Sono bambini per i quali la normalità nei giorni festivi è andare a trovare i parenti che latitano nei bunker o quelli che sono in carcere.
A quattordici anni vengono sottoposti al battesimo con il quale riconoscono la ‘ndrangheta come superiore alla stessa famiglia. Questi bambini devono essere disposti ad uccidere anche il sangue del loro sangue, se necessario. Una cosa terribile, tuttavia non ci si deve stupire che essi scelgano, una volta cresciuti, di diventare ‘ndranghetisti, perché questa è la sola realtà che conoscono. Il nostro obiettivo è proprio quello di far capir loro che un altro mondo è possibile, in modo che siano davvero liberi di scegliere.
Questo è poi uno dei fini del programma “Liberi di scegliere”…
Esatto. Il protocollo “Liberi di scegliere”, attivato dal Presidente del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria, il dottor Di Bella, é al momento attivo nel Reggino. Ci prendono parte circa 25 ragazzi.
A seconda della situazione familiare i ragazzini vengono mandati o in Sicilia o in famiglie del nord o in una comunità all’interno del loro territorio. L’obiettivo è far conoscere loro la bellezza, un altro mondo, una vita che loro non conoscono, la normalità.
Una delle critiche che viene spesso fatta al programma è che lo Stato non dovrebbe immischarsi nell‘educazione dei bambini, sostituendosi alle famiglie. Lei cosa ne pensa?
Io penso che questa sia l‘unica possibilitá di salvezza per questi ragazzi. Ma non si tratta di deportazione.
Spesso vengono tirati in ballo i diritti del bambino. Ebbene, secondo me un diritto fondamentale è quello di ricevere un’educazione adeguata. Qui si parla di genitori che mettono al mondo figli per creare un esercito. Spesso la ‘ndrangheta parla di amore e famiglia. Ma usare le figlie per matrimoni di interesse, o spingere i figli alla vendetta non è amore. E ciò che propone il protocollo è permettere a questi bambini di salvarsi.
Non si corre il rischio, allontanando questi bambini dalle loro famiglie, di creare in loro il mito dei gentiori ai quali sono stati sottratti?
Per questo bisogna lavorare assieme ai genitori. Il tentativo del tribunale dei minori di Reggio Calabria è di far capire che lo Stato vuole educare questi bambini alla bellezza, creare per loro un‘alternativa.
Il padre di Aurora, una delle ragazzine che è stata affidata ad una famiglia del nord, all‘inizio non era assolutamente d‘accordo. Ora sembra contento che lei sia dove sia. Si rende conto che sua figlia sta vivendo qualcosa che lui non potrebbe offrile. E‘un momento particolare, in cui lo stato ha gli strumenti per iniziare a dialogare con gli ‘ndrangetisti. In fondo si tratta di famiglie con un elenco di morti infinito. Ci si chiede come i genitori non possano desiderare che questa catena si interrompa.
La mafia ama rappresentare lo Stato come stato usurpatore e cattivo. Lo Stato deve invecepresentarsi come un padre benevolo che dialoga con loro, perché desidera creare un futuro diverso per i loro bambini.
Qual è il Suo giudizio sul protocollo?
Il protocollo sulla carta è ottimo, ha bisogno però di un supporto da parte dello Stato. In particolare per quanto riguarda il dopo, per quando i ragazzi diventano maggiorenni. Se non sono infatti state create le condizioni lavorative necessarie, questi ragazzi sono poi costretti a tornare dalle loro famiglie, che spesso hanno ristoranti e locali e che dunque possono fornire lavoro. Se non creiamo delle prospettive lavorative, temo che il programma possa avere anche l‘effetto contrario di quello desiderato. Se io sono nato in una famiglia di ‘ndrangheta, quello che vivo è il migliore dei mondi possibili. Non ne conosco altri. Grazie al programma questi bambini vedono un mondo fatto di emozioni. Quando però, diventati maggiorenni, tornano a casa, c´è il rischio che in loro nasca un grande odio verso lo Stato, che ha fatto vedere loro un mondo diverso, ma che poi li ha abbandonati. Quindi è necessaria una progettualità.
Manca inoltre una preparazione adeguata anche da parte degli stessi sociologi ed assistenti sociali. E scarseggiano anche le famiglie, soprattutto al nord, pronte ad accogliere questi bambini.
Ha incontrato anche gli psicologi e gli operatori che seguono questi ragazzini nella loro nuova vita. Quali difficoltà incontrano?
Lo psicologo Enrico Interdonato, che si è occupato di Libero, uno dei figli di ndranghetisti che ho incontraro, mi ha detto che i ragazzi di ‘ndrangheta sono stati educati al rispetto delle regole, a stare negli schemi. Il lavoro che bisogna fare è dunque educare i bambini all´affettività, che viene negata dalla ‘ndrangheta, in quanto chi prova sentimenti è pronto a tradire. Quando questo processo di educazione all´affettività parte, molti bambini stanno male fisicamente, vomitano. Come se dovessero estripare un mostro dal loro interno.
Ha incontrato anche Libero, un ragazzo che è stato allontanto dalla sua famiglia ‘ndranghetista per essere mandato in Sicilia. Libero ora è alla fine di questo percorso. Che effetti ha avuto su di lui questo allontanamento?
Ho incontrato Libero tre volte e mi sono resa subito conto che era una persona in evoluzione. All´inizio era molto chiuso, rigido. Io ero una donna, per giunta una giornalista, scesa da sola in Calabria e ciò lo rendeva molto diffidente.
All‘inzio Libero vedeva davanti a sé o il carcere o la morte. Alla fine del suo percorso invece mi ha detto: “Di fronte a me ora non so cosa vedo”. Quel “non so” è una conquista enorme.
Poi mi ha detto che appena prenderà la patente porterà fuori a cena sua madre – una cosa che prima sarebbe stata impensabile. Infine mi ha parlato dello Stretto di Messina, che vedeva ogni volta che viaggiava tra la Calabria e la Sicilia, ma che non aveva mai osservato consapevolmente. Libero mi ha raccontato di essersi emozionato alla bellezza della sua costa vista dalla Sicilia.
Angela Iantosca, classe 1978, é autrice dei libri “Onora la madre. Storie di ‘ndrangheta al femminile” e “Bambini a metà. I figli della ‘ndrangheta”. Iantosca lavora per la RAI.