Importavano grandi quantità di cocaina tramite i porti del nord Europa e della Calabria. Colpita cellula della ‘ndrangheta a Roma.
Importavano grandi quantità di cocaina direttamente dal Sud America, tonnellate di polvere bianca che la 'ndrangheta commercializzava poi su Roma mettendo in atto un raffinato sistema di riciclaggio per ripulire e reinvestire in ulteriori operazioni di narcotraffico i lauti proventi.
Diciannove persone sono state oggi arrestate dalla Guardia di Finanza del Comando Provinciale di Roma, di cui una fermata in Spagna grazie al coordinamento con l’Interpol. Erano i membri di una „cellula“ romana della mafia calabrese, quella che da anni è oramai egemone nel traffico di stupefacenti in Europa, come le numerose operazioni di questa settimana confermano.
Le indagini delle Fiamme Gialle hanno portato in primo luogo a importanti sequestri di droga, che veniva nascosta in container trasportati sia via mare che in aereo. Rotte internazionali che hanno coinvolto anche il nord-Europa, in particolare i porti della Germania, dell’Olanda e del Belgio, dove l’enorme volume di merci in transito rende semplice occultare i carichi di droga. Circa 562 chili sono stati sequestrati fuori dall’Italia, ed altri 500 fra il porto di Gioia Tauro, Roma e Milano.
Un rischio calcolato per l’organizzazione criminale, che sa bene che per ogni carico fermato, altri dieci transitano sotto gli occhi degli investigatori.
L’alto livello delle tecniche investigative messe in campo ha però permesso di tracciare i canali del riciclaggio del denaro, che avveniva attraverso molteplici società e che faceva viaggiare i soldi quasi più della droga stessa. Si avvalevano di una società inglese, con filiale in Toscana. In primis i soldi venivano fisicamente trasportati in Svizzera, grazie a diversi ‘corrieri’ sicuri, fra cui anche un complice dell’organizzazione membro del personale diplomatico italiano. A Lugano una società provvedeva a convertire le somme in dollari, per versarlo poi su conti di un istituto di credito della stessa città, il cui direttore era d’accordo con gli ‘ndranghetisti. Da qui partivano bonifici per il Brasile dove tramite un giro di prestanome il denaro veniva poi consegnato, in contanti, al capo della ‘cellula’ mafiosa, che lo poteva reinvestire in nuove partite di coca.
Chi non era volontariamente connivente veniva tenuto in scacco: il figlio di uno dei manager coinvolti nelle varie fasi del processo veniva tenuto in ostaggio in un albergo in Brasile, fino alla conferma dell’avvenuto trasferimento di denaro nella banca sudamericana.
Uno dei personaggi chiave nell’organizzazione di questo complesso meccanismo era un manager italo-svizzero, già coinvolto in una truffa per 12 milioni di euro che lo costrinse a ritirare la sua candidatura alle elezioni del Consiglio di Stato del Canton Ticino, e precedentemente direttore generale di un importante società che gestisce e sviluppa le attività legate alla produzione e alla commercializzazione di energia elettrica, vapore e gas.
Giulio Rubino, Cecilia Anesi