Aspro(Pie)monte: l’autore del webdoc si racconta
Aspro(Pie)monte è un webdoc di 42 minuti in italiano prodotto e pubblicato dal quotidiano piemontese La Stampa ieri, l’11 febbraio 2015. Ma Aspro(Pie)monte è prima di tutto “un viaggio”, un viaggio nella più forte e pericolosa mafia italiana:la ‘Ndrangheta.
Lo hanno presentato così l’autore Giuseppe Legato e il filmmaker Daniele Solavaggione: „è una storia di fiumi di droga, di lunghe scie di morti, di appalti e grandi opere, di santini che bruciano nelle mani dei giovani boss. Al Nord, in Piemonte, a Torino. È la storia di una mafia arcaica che replica anche qui, lontano dalla Calabria, i riti vecchi di cent’anni e al contempo utilizza modernissimi sistemi di riciclaggio dei soldi a palate che arrivano dal core business dei „Calabresi“: la cocaina. Passato e presente si fondono in una strategia criminale che ha portato questa mafia dal nome quasi impronunciabile a stringere finanche rapporti con pezzi della politica. È un viaggio che dura cinquant’anni.“
Giuseppe ha dovuto scavare ben oltre la sua età anagrafica, da giovane cronista de La Stampa. Lo aveva iniziato a fare già undici anni fa, quando ha lasciato la sua Reggio Calabria, arrivando a Torino. In questa intervista al Mafiablog ci racconta le tappe di questo viaggio.
Da cosa nasce e quando l’idea del documentario?
L’idea è nata in un bar, uno dei pochi aperti a Torino alle quattro del mattino. Era la notte degli arresti dell’operazione Minotauro, l’8 giugno 2011. Un tenente che aveva lavorato in prima persona all’indagine mi chiamò a operazione conclusa. Si fece l’alba. Mi disse: puoi scrivere quanto vuoi di questa storia, ma fallo con le immagini. La gente, qui, ha bisogno di vedere e non solo di leggere. Dopo due anni e dopo pagine e pagine scritte sulla ‘ndrangheta, ho iniziato a pensare che bisognasse provare a cambiare piattafoma. Immagini e testimonianze. Credo avesse ragione lui.
Il documentario è stato interamente finanziato dal quotidiano La Stampa?
Quasi interamente. Senza fare tanta filosofia sul nostro mestiere, sappiamo che i fondi per un lavoro, spostamenti, benzina, banalmente i costi vivi di un servizio, sono abbastanza alti. Se hai un grande giornale dietro, sei privilegiato. Mi sento così. La Stampa mi ha seguito anche nella richiesta delle autorizzazioni ai vari ministeri interessati, nelle pratiche burocratiche, e in passato anche nelle querele che sono arrivate.
Quante settimane/mesi di riprese avete fatto? Avete mai rischiato qualcosa durante le riprese, o ci sono state cautele da prendere?
Ho lavorato a lungo con un collega reporter, Daniele Solavaggione, un’ottima spalla, una persona seria. Cinque mesi, più o meno. Nelle domeniche, nelle pause pranzo nei giorni di recupero straordinari, ci siamo ritagliati il tempo per costruire una sceneggiatura. A Volpiano, una città piemontese ormai feudo della ‘ndrangheta di Platì, abbiamo lavorato con una certa prudenza. Diciamo che non ci siamo sentiti i benvenuti, ma mentre giravamo le riprese con noi c’erano i carabinieri e quindi è filato tutto liscio.
Le ricerche per il documentario quando le hai iniziate?
Al Salone del Libro. Era maggio 2014. Il procuratore aggiunto presso la Procura di Reggio Calabria Nicola Gratteri e il professore Antonio Nicaso presentavano il loro libro ‘Acqua Santissima’. Li abbiamo ospitati presso il padiglione de La Stampa, allestito al Salone. Lì, abbiamo iniziato a chiedere se fossero disponibili a un’intervista per un docu-film. Mezz’ora dopo stavamo già girando, in albergo. Ho chiamato Daniele: prendere o lasciare, gli ho detto. È arrivato in cinque minuti…
Per te questo documentario è un viaggio, ci racconti le sue tappe principali?
Non sono molte, le ho tutte in mente. Ne parlai subito con un caporedattore proprio durante il Salone. Con lui c’è un feeling particolare: anche qui un privilegio. Mi disse: procedi, ma non ti mettere nei guai. A settembre abbiamo accelerato. A quel punto sia i Carabinieri che la Direzione Investigativa Antimafia ci hanno dato una grande mano. Cito di nuovo Volpiano, lì abbiamo dovuto cambiare percorso un paio di volte. Eravamo arrivati da pochi minuti e alla caserma dei Carabinieri il telefono era già „occupato“. Qualcuno chiedeva cosa stessimo facendo lì. A Natale abbiamo iniziato il montaggio. Sei giorni e sei notti. Devo una dozzina di caffè al videomaker che ci ha aiutato, Paolo Tangari, un altro gran professionista. A fine dicembre il lavoro è stato consegnato. Ho avuto subito buoni riscontri, il giornale l’ha accolto prima con prudenza e poi con entusiasmo. Se in un grande giornale che sforna notizia a rullo continuo da tutto il mondo, non hai qualcuno che spinge per portare a galla il tuo lavoro, rischi di rimanere fermo. Ho avuto anche questa fortuna. Il mio responsabile ci ha creduto da subito.
Raccontaci un po’ di te, come ti sei avvicinato a questi argomenti e quanto tempo fa?
Ho iniziato a 24 anni, 11 anni fa. Ero arrivato in Piemonte, da Reggio Calabria, cinque anni prima. Nel 2007, quando a Torino è saltato fuori il primo vero pentito di ‘ndrangheta – Rocco Varacalli, di Natile di Careri — ho iniziato a studiare con più costanza. Ho chiesto carte alle procure, senza farmi precedere da tante telefonate di „segnalazione“. A volte arrivavano, a volte no. Ogni volta che tornavo a Reggio, dove vive la mia famiglia, andavo alla Direzione Distrettuale Antimafia a chiedere carte e sentenze. Ancora oggi non conosco un modo diverso da questo per provare, umilmente, a raccontare quest’organizzazione criminale. Studiare, studiare e studiare. A Torino, seguendo il lavoro dei pm Giancarlo Caselli e Roberto Sparagna, quest’ultimo titolare dell’indagine Minotauro, ho trovato la chiave per capire il dorso piemontese della ‘ndrangheta.
Hai mai ricevuto minacce per il tuo lavoro?
Minacce vere e proprie no, non ne ho mai ricevute. Su qualche ordinanza è finito anche il mio nome, ma non ne abbiamo fatto una questione più grossa di quello che era. Se un pezzo non piace alla ‘ndrangheta metti in conto di poter finire in un’ambientale dai toni poco lusinghieri in cui qualcuno manifesta livore nei tuoi confronti. Questo però lo sai dall’inizio. Fare l’eroe non paga nel nostro mestiere. Profilo basso, bassissimo e pedalare. Io la penso cosi.
Cosa ti aspetti da questo documentario in termini di risposta dal pubblico?
Mi aspetto di aprire gli occhi. Lo so, è una pretesa presuntuosa, ma questo lavoro nasce per raccontare e – attraverso il racconto – aiutare chi ha avuto la pazienza di seguirci a capire di più su qualcosa che per anni è stato negato: la presenza della ‘ndrangheta in Piemonte. A Torino c’è ancora gente che non sa che la ‘ndrangheta ha ucciso il procuratore capo Bruno Caccia nel 1983. Un magistrato mi ha detto più volte questa frase: „Hanno rimosso, per non aver paura“. Per capirci: questa città ha avuto il suo Giovanni Falcone prima della Sicilia, ma è riuscita ad etichettare la morte di un eroe antimafia a semplice ‘omicidio eccellente’. Un peccato di memoria. E di rispetto.
Pensi che alla ‘Ndrangheta al Nord, e al sud, possa dare fastidio questo documentario?
Non è un pensiero che mi appartiene. Mi interessa di più rispondere ai lettori. Spero che a loro piaccia.
Se dovessi definire la ‘Ndrangheta in Piemonte oggi in poche parole, come la definiresti?
Fortissima, temuta. Capillare, mimetica. Incompresa. Rifiutata quasi con imbarazzo dalla gente. Cercata da una certa imprenditoria e da pezzi della classe politica.
Hai mai intervistato un ‘ndranghetista (a piede libero o non)?
No, mai successo. Io tendenzialmente non li cerco, non credo che la loro testimonianza sia utile a raccontare ai lettori un fenomeno così complesso. I rischi di essere „usati“ poi, sono dietro l’angolo. Sarebbe un’intervista genuina? Di contro loro non mi hanno mai cercato, nemmeno tramite gli avvocati. Se non per rettifiche o querele, chiaro. Poi, sia chiaro, se parlano è c’è una notizia, bisogna scrivere.
Pensi che il giornalismo sulla mafia italiana, in Italia e all’estero, stia ottenendo qualche risultato? Cosa si può fare per migliorare? Pensi che questi argomenti abbiano tutto lo spazio che meriterebbero?
Questo è la parte più difficile della questione. È evidente che il tema sta prendendo spazio. Se ne parla sempre di più, se ne parla sempre più in profondità. Ci sono blog e siti di giornalismo d’inchiesta molto interessanti. Fanno un lavoro encomiabile senza gli agi che ho potuto avere io. Il problema sono i colleghi che sviliscono il tema. Alcuni li conosco. Le chiamano „locridate“ senza accorgersi che condannano a morte la loro terra. Si stanno estinguendo, ma sono ancora abbastanza. Mi auguro che presto possano diventare „preistoria“. Al mio giornale l’argomento è invece centrale. Il docu-film è lì a dimostrarlo.
Il documentario verrà proiettato in qualche sala o evento?
Questo lo deciderà il giornale. Se arriverà qualche richiesta non credo ci saranno problemi. Sarebbe un bel segnale, vorrebbe dire che qualcuno lo ritiene utile. In fondo abbiamo lavorato per questo.
Intervista di Cecilia Anesi e Giulio Rubino